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INTERVISTE

aitini

Intervista al duo da parte di Alessandra Aitini

Febbraio 2019

 

Beatrice Lupi e Francesco Paganini, classe 1989 lei e 1988 lui, di Mendrisio lei, milanese lui, sono due pianisti legati nel lavoro e nella vita. E fin qui niente di sorprendente o anomalo. La straordinarietà della loro storia, oltre ad una umanità rara a trovarsi, risiede nel fatto che una volta terminati gli studi universitari presso il Conservatorio della Svizzera italiana, nel 2015 Beatrice e Francesco si sono trasferiti in Sud America per perseguire i propri progetti professionali di musicisti. Dopo un percorso non privo di ostacoli, oggi si trovano alla direzione di un Conservatorio di un’importante città della Bolivia e ci raccontano alcuni aspetti della loro appassionante vicenda.

 

Come è nata l’idea di trasferirsi in Sud America e avviare in quei luoghi un progetto professionale e di vita?

– Questa idea è stata il frutto di un processo di avvicinamento maturato durante gli anni attraverso esperienze e progetti. La scelta che abbiamo compiuto è in parte etica, in quanto implica la decisione di vivere parte della nostra vita con uno stile diverso, più semplice ed essenziale, mentre parallelamente la nostra professione si trova ad avere una funzione di “supporto” - con la nostra piccola competenza – nei confronti processi artistici, sociali, culturali e pedagogici di progresso senza limiti e frontiere.

Infine, l'America latina è un continente in grande ebollizione musicale e culturale, un laboratorio di idee ed esperienze giovani che stanno sorprendendo il mondo musicale: tutto questo rappresenta un ambiente realmente stimolante per noi.

 

Quali sono fin ad ora state le tappe della vostra avventura?

– Dal 2007 prima Francesco, poi entrambi, abbiamo realizzato svariate esperienze di mesi di volontariato musicale in Bolivia, Perù e Argentina, creando tra gli altri il progetto musicale-sociale Crecer en Música, che è stato anche parte di studi pedagogici durante il nostro percorso di formazione. Conseguito il titolo Master nel 2015 ci siamo trasferiti dapprima in Argentina creando il progetto MIZAR - inizialmente un centro culturale, poi una Ong artistico-sociale - e lavorando in numerosi progetti e luoghi tanto in Argentina quanto in Bolivia. Nel 2017 ci è stata proposta la sfida, che abbiamo accettato, di creare un Conservatorio a Sucre, in Bolivia. Ad oggi questa istituzione è una realtà effervescente che ci impegna duramente, ma parallelamente ci permette di sviluppare altri progetti pianistici e musicali sia in Sudamerica sia in Europa.

 

 

Come vivete questa vostra “doppia identità” europea e sudamericana, sia dal punto di vista delle emozioni che dal punto di vista delle attività e delle ambizioni professionali?

– Più che di doppia identità possiamo parlare di “contaminazione” intesa come assorbimento di elementi di culture e paesi diversi che imparano a convivere, nella vita emotiva come in quella professionale. La scelta che da sempre ci guida è quella di vivere i luoghi in cui ci troviamo, senza guardarli dall'esterno né giudicarli senza averli prima capiti ed esperiti: ciò ci ha cambiato sicuramente in tanti aspetti.

Oggi, in un mondo globalizzato di grandi spostamenti, l'identità di ognuno diventa ogni giorno frutto delle esperienze e degli incontri che marcano il nostro percorso, più che un'espressione di provenienza geografica. Sicuramente vivere luoghi diversi aiuta a maturare, crescere e riconoscere gli “eccessi culturali” dei singoli contesti con criticità costruttiva.

 

La direzione di un conservatorio implica una serie di abilità e competenze che esulano dal pianismo in sé e per sé. Quanto è stato importante nel vostro percorso lo sviluppo dell’aspetto manageriale e organizzativo?

– Indubbiamente fondamentale. Il mestiere del musicista ormai richiede abilità non solo strumentali e musicali, ma anche sociali, organizzative, di comunicazione.  La gestione di un'accademia musicale, in particolare, comporta scelte complesse tanto pedagogiche quanto economico-gestionali, come pure d'altra parte la vita lavorativa di un artista. In ogni luogo in cui abbiamo messo in atto dei progetti è stato fondamentale conoscere innanzitutto il contesto, prima ancora del sistema gestionale.

Esperienze lavorative precedenti, in Europa come in altri paesi latinoamericani, ci hanno indubbiamente forgiato e insegnato molto, ed oggi ci troviamo a dover essere realmente “multitasking” nel nostro lavoro, mixando luoghi, competenze e linguaggi molto diversi tra loro. Il nostro caso è stato un processo di apprendimento sul campo, molto più di quanto imparato “a scuola”. Alla luce della nostra esperienza riteniamo pertanto che sarebbe interessante che si desse un peso più serio allo sviluppo di queste competenze durante il percorso formativo.

 

In che percentuale e in che maniera si fondono nel vostro lavoro funzione pedagogico-musicale e funzione sociale?

– Nel nostro lavoro la funzione sociale e quella pedagogico-musicale coincidono. In qualunque contesto. Trattandosi di un lavoro di comunicazione, sia nella veste di concertista che in quella di insegnante, abbiamo una responsabilità anche sociale, di educazione ai valori della vita, importante quanto l’apprendimento musicale, se non di più.  Crediamo che il lavoro musicale sia lavoro sociale sempre, o perlomeno dovrebbe esserlo. La cultura e l'arte comportano una missione sociale di educazione: educazione al bello, educazione ai grandi valori dell'uomo e della storia, educazione emotiva, educazione intellettuale. Lavorando fuori dall'Europa questa commistione è ben evidente, poiché lo è il sacrificio associato alla professione e all'educazione. Nel nostro lavoro cerchiamo sempre di avere un occhio per il sociale, portando la musica dove non arriverebbe, investendo parte del nostro tempo in una pedagogia ed attività artistica finalizzata all'integrazione e sensibilizzazione, cercando di formare professori e musicisti di qualità musicale ed umana.

poltrona gialla

Intervista al duo da parte della rivista “La poltrona gialla”

Giugno 2020

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SPOSTARE LE MONTAGNE - Intervista a Beatrice Lupi e Francesco Paganini

di Giulia Alessio

 

Da poco più di un anno collaboro come docente a distanza (per il mio strumento, violino) con il Conservatorio di Sucre, in Bolivia.

Questa è la storia di come è nato questo splendido progetto e di come abbiamo reagito (sempre da due continenti) alla pandemia ed alla quarantena, narrata dalla viva voce di Beatrice Lupi e Francesco Paganini, lei ticinese e lui milanese, pianisti, insegnanti, ideatori e fondatori del progetto stesso.

 

Ciao ragazzi, mettetevi comodi. Prima di tutto avete 400 caratteri a testa per raccontarci come siete arrivati fino a qui. Saltate pure gli scali in aeroporto...

– Tutto ebbe inizio con gli studi al Conservatorio della Svizzera Italiana di Lugano, dove ci siamo conosciuti. Finiti gli studi, la domanda tipica: e ora? Già da anni andavamo a Cochabamba, in Bolivia, per un progetto socio-musicale ed il richiamo del Sudamerica era già forte. Così, insieme ad un amico clarinettista argentino conosciuto a Lugano (Gonzalo Borgognoni) abbiamo creato un progetto per aprire un centro culturale dedicato alla musica classica a Mar del Plata, sulla costa in provincia di Buenos Aires: il Centro Cultural MIZAR. Il progetto ha funzionato per due anni, poi una serie di situazioni della vita hanno complicato le cose: la crisi in Argentina, la perdita della casa e lavoro che ci han fatto fuggire dopo aver alloggiato per due settimane nell'aula di batteria della scuola di musica dove lavoravamo (sparendo la mattina all'arrivo degli allievi e ritirando fuori furtivamente il materasso quando l'ultimo se ne andava), grazie ai carissimi amici Jorge e Nico. Intanto avevamo viaggiato parecchio in Bolivia per alcuni concerti, intessendo contatti e amicizie.

 

Perché proprio Sucre?

– Arrivati a Sucre per un Festival, alcuni musicisti hanno espresso la necessità per la città di avere un centro di formazione musicale. La collaborazione è iniziata così e ci siamo trasferiti nel 2017 (coincidenza fortuita di fuga dalla crisi argentina verso la nuova proposta boliviana, giunta tempestivamente). Così è iniziato lo studio delle leggi boliviane dell'educazione, del funzionamento di altri conservatori nel mondo e si è formulato il primo progetto di Conservatorio di Sucre. Ora ha preso vita ed esiste da tre anni, ha cambiato forma più volte ed ora conta con un numero elevato di studenti (più o meno un centinaio) e docenti nazionali e internazionali. La città di Sucre, pur essendo capitale è abbastanza piccola e non contava con istituzioni di formazione musicale superiore. Chi volesse studiare musica professionalmente doveva trasferirsi a minimo dieci ore di autobus di distanza, contando anche tutte le difficoltà economiche che questo comporta.

 

Come è nata l'idea di un conservatorio?

– L'insegnamento rappresenta una componente importante della nostra vita, affianca e nutre la nostra attività musicale da anni. L'idea di fornire opportunità a tutti con proposte formative di qualità ci sembra un modo accattivante per scoprire le proprie potenzialità. Siamo sicuri che questo potrebbe arricchirci tutti.

 

Quanti docenti collaborano con voi e da dove?

– Con noi collaborano 6 docenti internazionali da Svizzera, Italia, Palestina, Stati Uniti e Cuba, e sei assistenti boliviani.

 

Si parla spesso di crisi della cultura italiana dovuta ad un mancato supporto istituzionale e finanziario. In Bolivia invece a quali difficoltà dovete far fronte?

– Se in Italia il problema dell'appoggio alla cultura è evidente, in Bolivia lo è al cubo.

Qui lo stato non ha sicuramente le possibilità economiche di un paese europeo ed ancor meno le ha buona parte della popolazione. Stiamo parlando di realtà dove la semplice sussistenza è una sfida per alcuni settori della popolazione e dove le instabilità sono ricorrenti nella vita comune. La professione del musicista è sicuramente più complessa ed instabile, visto anche il piccolo numero di istituzioni formative esistenti ed ogni progetto va pensato per camminare con le proprie gambe, calcolando sempre un ampio margine di rischio. Ci ha insegnato molto lavorare in questo contesto, in primo luogo ad arrangiarci, in secondo luogo a non lamentarci, in terzo luogo a smettere di pianificare eccessivamente la nostra vita, infine a dover proporre soluzioni, chiedendoci il come e il perché delle mille sfaccettature del nostro lavoro, tanto artistico quanto formativo.

 

La pandemia e la quarantena hanno colpito duramente il mondo dello spettacolo dal vivo in tutto il mondo.

Eppure grazie all'allenamento della docenza a distanza e ad un certo occhio registico avete sviluppato un'idea davvero originale per continuare a fare concerti sostenendo anche economicamente il conservatorio...ce la raccontate?

– In questi anni abbiamo sviluppato un'abitudine alle risorse tecnologiche per gestire il lavoro di formazione con i docenti alla distanza. Mai però ci saremmo immaginati di dovervi ricorrere anche per l'attività concertistica. L'idea è nata per poter continuare a suonare, seppure non dal vivo. Così è nato il ciclo Delivery Concerts. In questi concerti il pubblico si connette alla piattaforma virtuale Zoom e incontra "live" gli artisti, che illustrano le opere che si andranno ad ascoltare. Poi si condivide con il pubblico il video registrato durante la settimana stessa del concerto (per mantenere un po' di "live" i concerti si preparano e registrano settimanalmente). Ovviamente nessuno degli artisti coinvolti possiede l'attrezzatura professionale da registrazione (noi stessi in casa abbiamo solo un pianoforte elettrico), tuttavia il senso di questi concerti è mantenere vivo il desiderio delle persone di ascoltare musica classica, reagendo artisticamente ad una situazione che ci limita.

 

Cosa vi manca di più dell'Europa e da cosa assolutamente non vorreste separarvi della Bolivia?

– Crediamo che dell'Europa ci manchino certi aspetti della vita quotidiana ed alcune esperienze artistiche qui più difficili da realizzare (compensiamo con viaggi costanti per non perdere questo lato). Della Bolivia non cambieremmo la dimensione sociale e comunitaria, che rende la vita meno egoista e triste, né i mille lavori che questo contesto ci offre in ambito tanto professionale quanto umano. Il senso di stare realizzando qualcosa di giusto, per i valori in cui crediamo, ci dà molta forza anche nei momenti più complessi.

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